Cronologia della Storia di Ceva
			
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				| Vista del Forte di Ceva dalle alture verso Torresina. | 
			
			
				La zona di Ceva fu abitata nell'antichità da vari popoli e tribù: Liguri, Bagienni, Ingauni, Stazielli, 
				Galli Cispadani ecc.. L'assoggettamento ai Romani, avvenne sul principio del II secolo a. C. e di ciò si 
				hanno notizie da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia (libro XI cap. 97) che parla del formaggio locale 
				(caseo ... Cebanum ... ovium maxime lactis ...) e da Columella che cita una particolare razza bovina 
				denominata Ceva (... regionis incolae Cevas appellant ...) nel De re rustica (libro VI cap. 24). 
				Ceva probabilmente non fu mai un Municipio Romano poiché gli abitanti di questi posti erano annoverati 
				nella tribù Publilia, sotto la giurisdizione di Albenga (Albingaunum). Dell'epoca romana di Ceva è 
				rimasto soltanto il nome, in quanto le invasioni  dei barbari e poi quelle dei saraceni hanno distrutto questa 
				zona ed ogni genere di vestigia e documenti scritti.
				Nell'XI secolo alcune carte degli Arduinici ascrivevano Ceva nella loro marca. Nel medioevo fu la sede di un marchesato 
				aleramico fondato da Anselmo II, figlio di Bonifacio del Vasto. Inizialmente i Ceva furono feudatari di oltre quaranta 
				borghi, molti dei quali con castello. Il marchesato ebbe i momenti più floridi dal XII al XIV secolo, periodo in 
				cui Giorgio II detto il Nano, dopo aver conquistato Mondovì per il Vescovo d'Asti, dovette cedergli il 
				marchesato stesso per poi esserne reinvestito. Ceva passò in seguito ai Visconti nel 1351 e agli Orléans 
				nel 1387. Dal 1422 fu assoggettata al dominio di Milano, a quello della Francia e poi della Spagna, finché nel 
				1559 i Savoia ne entrarono in possesso. I marchesi Ceva vennero destituiti e fu insignito del marchesato Giulio Cesare 
				Pallavicino.
				Ceva per molto tempo fu difesa da una Fortezza, baluardo militare dello Stato Sabaudo, in posizione strategica 
				sulla Rocca. 
				Durante la prima campagna napoleonica d'Italia, il generale Francesco Bruno di Tornaforte, governatore del Forte, 
				resistette alle milizie di Bonaparte e si arrese solo dopo l'armistizio di Cherasco, per effetto del quale anche 
				Ceva passava ai Francesi. Questi furono cacciati da un'insurrezione popolare nel maggio del 1799. Napoleone, 
				nel 1800, ordinò di distruggere il Forte per l'affronto subito.
				Alla fine dell'Ottocento il miglioramento del sistema stradale e la costruzione della rete ferroviaria favorirono 
				lo sviluppo industriale, in particolar modo nel settore tessile (Cotonificio, filande e filatoi). Purtroppo la Grande 
				Guerra portò ad una recessione del paese e molti cebani perirono al fronte. Durante la seconda guerra mondiale 
				Ceva fu occupata dai tedeschi e bombardata dagli alleati. Anche questo conflitto chiese molti sacrifici alla gente del 
				posto. Molti perirono o furono dispersi nella campagna di Russia. La Città seppe risollevarsi in fretta, con 
				un'accentuata espansione urbanistica al di fuori della zona un tempo delimitata dalla cinta muraria. Divenne un 
				polo artigianale, commerciale e di servizi di rilievo, incrementando la sua importanza come nodo del traffico viario di 
				collegamento con la Liguria. Nei secoli, a causa della sua posizione geografica, fu più volte oggetto di eventi 
				alluvionali. Nella memoria dei cittadini è ancora ben impressa l'alluvione del 1994 che arrecò 
				molti danni.
				Ceva, nonostante i periodi di difficoltà, le distruzioni ad opera dell'uomo o della natura e i 
				periodi di crisi economica che spingono i giovani a cercare lavoro fuori dai suoi confini, continua comunque 
				imperterrita ad andare avanti, accettando le sfide del XXI secolo.				
			
			
									
			Cronologia del XVIII secolo
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		Nel 1706, il Forte e la città di Ceva si trovarono coinvolti nei fatti d’arme relativi alla Guerra di Successione Spagnola, 
		durante la quale il duca di Savoia Vittorio Amedeo II era schierato con gli Asburgo e buona parte degli altri stati europei 
		contro l’alleanza franco-spagnola. Nell’ambito degli eventi collegati al famoso assedio di Torino, diverse furono le 
		azioni belliche che si svolsero nel cebano e numerosi uomini di questi territori furono arruolati nelle milizie sabaude. 
		Un assedio di alcuni mesi fu portato al Forte di Ceva da un’armata di 5.000 spagnoli, comandata dal conte di Sartirana.
		
 
 
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		Gli avvenimenti guerreschi nella zona di Ceva, durante i quali al comando delle truppe dei Savoia ivi dislocate si distinse 
		la figura di Carlo Francesco delle Lanze conte di Sales, si protrassero fino al mese di settembre quando i piemontesi, 
		sotto la guida del principe Eugenio, del duca Vittorio Amedeo II e grazie all’eroico sacrificio di Pietro Micca, 
		posero fine all’assedio di Torino sbaragliando l’esercito francese e costringendolo ad una precipitosa ritirata.
		
 
 
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		Nel 1712, nel sobborgo di Ceva allora chiamato di Santa Croce, venne portata a termine la riedificazione della chiesa dei Cappuccini, 
		iniziata  nel 1709, dopo aver demolito, alla fine del secolo precedente, gran parte della primitiva chiesa, eretta tra il 1577 ed il 
		1582, ormai fatiscente e minacciante rovina.
 
 
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		Nel 1719, con testamento rogato dal notaio G.B. Melissano di Saliceto, il sacerdote Giovanni Agostino Borgognone di Ceva donò 
		il suo patrimonio al Municipio, con l’obbligo di fondare un Collegio in cui si provvedesse all’insegnamento della grammatica,
		dell’umanità e della retorica. Successivamente, nel 1731, Carlo Emanuele III di Savoia dispose l’
		assegnazione al Municipio di un sussidio annuo di L. 1.050 affinché si potesse integrare il lascito Borgognone 
		ed istituire in aggiunta le classi di filosofia. Il contributo delle regie finanze fu mantenuto fino al 1762.
 
 
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		Il 20 maggio 1720, a seguito del trattato dell'Aia con il quale la Sardegna veniva assegnata ai Savoia, Filippo 
		Guglielmo Pallavicino dei marchesi delle Frabose e di Ceva, chiamato anche barone di Saint Remy, venne nominato, 
		dal re Vittorio Amedeo II, vicerè della Sardegna. Mantenne questo incarico per due periodi, 
		dal 1720 al 1723 e dal 1726 al 1727.
 
 
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		Nel 1724 i frati cappuccini realizzarono un’importante opera per l’irrigazione dei campi, orti e 
		giardini attigui al loro convento costruendo un canale lungo più di venti trabucchi (circa 62 metri), sostenuto da 
		un complesso di arcate, che attingeva l’acqua dalla riva della località detta Ostero, alla sinistra del 
		torrente Cevetta.
 
 
- Nel 1731 Anna Teresa Carlotta Canalis di Cumiana, contessa di San Sebastiano, marchesa di Spigno, moglie 
		morganatica di Vittorio Amedeo II, venne imprigionata per alcuni mesi nel Forte di Ceva per ordine del figlio di questi, 
		il regnante Carlo Emanuele III, in favore del quale il padre aveva abdicato l’anno precedente. A
		pparentemente la ragione fu quella di aver istigato l’ex sovrano, già ammalato, ad annullare 
		l’atto di abdicazione per ritornare sul trono sabaudo.
 
 
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		Il 18 Novembre 1737 la chiesa dell’Arciconfraternita di Santa Maria e Santa Caterina venne consacrata. 
		Edificata sulla piazza principale della città, su progetto iniziale del 1680 del celebre architetto modenese 
		Guarino Guarini, dopo vari decenni di interruzione l’opera fu  nuovamente progettata e portata a termine 
		dall’architetto monregalese Francesco Gallo.
 
 
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		Nel 1738 venne trasferito nelle prigioni del Forte dalle carceri di Torino Pietro Giannone, storico, filosofo e 
		giurista di origini pugliesi, importante rappresentante dell’Illuminismo italiano, condannato per le sue 
		opere letterarie di marcata tendenza anticlericale. 
		Vi rimase sino al 1744 ed in questo periodo scrisse alcuni dei suoi più celebri componimenti. 
		Di nuovo tradotto nelle prigioni del mastio della Cittadella di Torino vi morì nel marzo del 1748.
 
 
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		Dal 1739 si registrò una sorta di evoluzione in termini di assistenza sanitaria. Con gli interessi maturati 
		dai capitali della Confreria dello Spirito Santo fu possibile stipendiare un medico ed un chirurgo che curassero 
		gli ammalati del quartiere del borgo Sottano.
 
 
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		Nel 1744 una straordinaria piena del torrente Cevetta recò gravi danni. Oltre ad abbattere uno 
		dei pilastri e due arcate dell’acquedotto dei frati Cappuccini, danneggiò il ponte San Giovanni 
		ed alcune case del borgo della Luna.
 
 
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		Nel 1744-1745 altre vicende belliche interessarono il Forte, la Città e tutta l’Alta Val Tanaro 
		per effetto della Campagna militare Gallo-Ispana condotta nel contesto della più ampia Guerra di 
		Successione Austriaca (1740-1748) che coinvolse quasi tutte le potenze europee. Le truppe d’invasione 
		erano comandate dall’infante Filippo di Spagna e dal maresciallo francese Jaen Baptiste de Maillebois e 
		percorrevano la costiera occidentale per inoltrarsi nell’Italia settentrionale. Secondo alcuni storici 
		una parte di queste milizie, attraverso l’Alta Val Tanaro, giunse fino a Ceva, assediando la fortezza, 
		secondo altri fu affrontata e sconfitta in campo aperto dal corpo piemontese del barone 
		Wilhelm von Leutrum (in dialetto nostrano noto come Baron Litron).
 
 
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		Nel 1763, mentre era parroco Michele Marazzani, furono portati a compimento i lavori di ampliamento del Duomo, 
		iniziati tre anni prima su progetto dell’ingegner don Giuseppe Trona di Mondovì che aveva previsto 
		l’aggiunta di una cappella per lato in senso longitudinale ed il completo rifacimento della facciata.
 
 
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		Nel 1773, con patente regia, Carlo Emanuele III, riconosce a Ceva il titolo di Città con tutti gli onori, 
		diritti e prerogative che ne convengono. Il riconoscimento, già attribuito da altri sovrani sabaudi nel 
		secolo precedente, viene tuttavia riaffermato dal re in carica ed il relativo testo termina con le seguenti parole: 
		“… avuto il parere del nostro Consiglio creiamo, costituiamo e stabiliamo il comune, luogo e 
		territorio di Ceva in Città, volendo che d’or in avvenire debba sempre essere trattato, 
		reputato e denominato col titolo di Città...” (Firmato Carlo Emanuele III, re di Piemonte e Sardegna).
 
 
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		Il 21 Marzo 1775, Vittorio Amedeo III stabilì, con suo decreto, che si costruisse una strada che, 
		partendo da Narzole ed attraversato il Tanaro salisse a Murazzano e si congiungesse a Montezemolo con la strada n
		azionale che dal Piemonte arrivava a Savona attraverso Ceva. La strada venne chiamata 
		Strada delle Alte Langhe o della Riviera.
 
 
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		Il 17 Dicembre 1779, a seguito del testamento del cavalier Francesco Amedeo Derossi e coi beni che legò 
		suo fratello, monsignor Giuseppe Tommaso vescovo di Alessandria, fu fondato l’Orfanotrofio che divenne, nel 
		1786, Ospizio di Carità e chiamato Istituto Derossi a memoria dei due fondatori. Al principio ebbe la sua 
		sede in una casa del borgo Sottano, poi si trasferì nel dismesso convento dei Cappuccini e nel 1816 
		trovò la sua definitiva collocazione nella casa dell’avvocato Greborio nella contrada Valgelata.
 
 
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		Il 1° febbraio 1786, stante la perdurante difficoltà che presentava la promiscua amministrazione 
		dell’Oratorio dell’Arciconfraternita di Santa Maria e Santa Caterina e dell’annesso 
		Ospedale, con rogito Bottalla, se ne stabilì la separazione creando due amministrazioni indipendenti. 
		L’Ospedale degli Infermi mantenne il titolo di Santa Maria e Santa Caterina, a ricordo delle due 
		confraternite che insieme lo crearono e gestirono per tanti anni.
 
 
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		Il 24 luglio dello stesso anno, alla presenza di monsignor  Giuseppe Maria Langosco di Stroppiana vescovo 
		di Alba e di monsignor Giuseppe Anton Maria Corte vescovo di Mondovì, venne celebrata la solenne festa 
		per la traslazione del sacro corpo di San Clemente martire, posto in un’urna di legno dorato costruita 
		a Roma e posto all’interno della chiesa dell’Arciconfraternita di Santa Maria e Santa Caterina.
 
 
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		Nel 1789, su progetto dell’ingegnere cebano Giuseppe Davico fu costruito l’abside del Duomo. 
		Le spese furono sostenute quasi totalmente dall’abate Alessandro Rovelli che già era stato 
		munifico donatore dell’ancona del Conca rappresentante la Sacra Famiglia e finanziatore della 
		realizzazione dell’altare maggiore.
 
 
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		Il canonico Celestino Ceva di Lesegno, insigne benefattore della collegiata, dove servi in qualità 
		di penitenziere per 55 anni, fece restaurare nel 1793 una parte della chiesa di Sant’Andrea, 
		il più antico edificio religioso cebano di cui si ha memoria che era unito all’omonima cascina.
 
 
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		La Rivoluzione Francese e gli eventi susseguenti rimisero in armi l’Europa. Vittorio Amedeo III, 
		rifiutando la condizione di neutralità richiestagli dai francesi si schierò dalla parte 
		dell’Austria. Prospettandosi quindi nuovamente un‘invasione delle armate di oltre Alpe, in 
		aggiunta alla guarnigione già presente nel Forte, furono molto numerose le soldatesche che si 
		stanziarono a Ceva, appartenenti sia all’esercito piemontese che agli alleati. Queste furono 
		portatrici di gravi epidemie tanto che nel 1794 e nel 1795 il tasso di mortalità, anche tra i 
		civili, fu quasi triplicato rispetto agli anni precedenti. Questa fu forse la ragione per cui al borgo 
		di Santa Croce, detto della Luna, in quei tempi non ancora molto urbanizzato, la nuova casa Beltrami 
		(che dopo diversi ripristini sarebbe diventata un secolo più tardi la sede del Banco di Credito Azzoaglio), 
		servì ad uso di ospedale militare. Dal 1794 al 1796 si poterono ricoverare in essa fino a 110 malati per volta, 
		appartenenti alle milizie austriache e sarde. In seguito, fu utilizzata come caserma dai soldati francesi 
		durante il loro periodo di occupazione del territorio piemontese dopo l’invasione del 1796.
 
 
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		L’invasione del regno di Sardegna da parte delle truppe rivoluzionarie ebbe inizio nel settembre del 1792 
		con i primi scontri al di là delle Alpi, nei territori del Nizzardo e della Savoia e proseguì, 
		con alterne vicende, anche l’anno successivo. Nel 1794 cambiarono i programmi del Direttorio, questi 
		prevedevano la penetrazione in Piemonte attraverso l’Alta Val Tanaro con il conseguente assedio del 
		Forte di Ceva, che era considerato il punto d’appoggio fondamentale attorno al quale concentrare le 
		strategie difensive anche dal comandante dell’esercito piemontese generale Michele Colli-Marchini. 
		Intanto, con l’ispirazione ai movimenti giacobini e girondini francesi, si erano sviluppate anche in 
		Piemonte, tra il popolo oppresso dalle gravose tasse imposte dai Savoia, concezioni di intransigente repubblicanesimo. 
		Questo non facilitò la predisposizione dei piani e delle azioni di difesa ad un esercito sfiduciato, 
		logorato da tre anni di guerra e non supportato nei modi più opportuni  dagli alleati austriaci 
		sotto la guida del generale Jean Pierre de Beaulieu.
 
 
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		Nella primavera del 1794, le truppe francesi comandate dal generale Massena, dopo aver occupato il forte di 
		Ormea, scesero in Val Tanaro spingendosi verso Ceva senza potersi tuttavia avvicinare. Non mancarono 
		però scorrerie e rappresaglie per tutto l’anno nella valle ed il rafforzamento dei 
		posizionamenti sulle alture vicine.
 
 
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		Alla fine del 1795, dopo varie operazioni di riassetto e spostamento di truppe, a seguito della 
		vittoriosa battaglia di Loano i francesi giunsero nei pressi di Ceva risalendo la Valle Bormida, 
		ma non era ancora nelle loro mire dare l’assalto al Forte e, fermati in Val Tanaro a 
		Nucetto e sulle colline di Perlo, furono costretti a ritirarsi nei campi invernali di Garessio ed Ormea.
 
 
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		Nei primi giorni di Aprile del 1796 la ripresa dell’offensiva francese si intuì imminente. 
		L’esercito transalpino poteva disporre di circa 65.000 uomini avendo contro non più di 25.000 
		piemontesi, poco più della metà dell’intero esercito sabaudo, essendo gli altri schierati su 
		altre postazioni dell’arco alpino o nelle retrovie a protezione della capitale. Le truppe austriache 
		alleate erano composte da circa 40.000 effettivi, ma sul fronte degli incombenti scontri non se ne contavano 
		più della metà. Gli altri erano ancora acquartierati nei campi invernali della pianura Padana. 
		Il Direttorio aveva appena posto a capo dell’Armée il giovane generale Napoleone Bonaparte 
		in sostituzione del generale Schérer. Il piano di Napoleone era quello già progettato dai 
		francesi, ma non realizzato nella campagna del 1744-45, cioè di sfondare al centro per separare i 
		due eserciti e combatterli separatamente.
 
 
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		Nella primavera del 1796, oltre l’incombere dell’invasione francese, si verificò 
		un’altra inondazione del Tanaro, che allagò tutta la pianura del Brolio, sradicando 
		e trascinando via alberi, devastando le coltivazioni e causando la perdita di una grande q
		uantità di bestiame.
 
 
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		Il Forte di Ceva, da un paio d’anni sotto il comando dell’anziano valoroso governatore 
		Francesco Bruno di Tornafort, costituiva l’argine principale attorno al quale concentrare tutte le 
		operazioni di difesa e a tal proposito si operarono massicci interventi. Infatti, con le direttive del 
		generale Eugen D’Argenteau, si costruì un eccezionale campo trincerato intorno alla fortezza 
		e lungo tutta la dorsale delle alture fin oltre la Pedaggera, andando a costituire un formidabile baluardo 
		contro qualsiasi tentativo di assalto da parte nemica.
 
 
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		L’avanzata dei francesi fu rapida e cruenta e nel giro di appena cinque giorni, dall’11 al 
		15 di aprile, combattendo su più fronti e riportando vittorie negli scontri di Monte Negino, 
		Montenotte, San Giovanni di Murialdo, Cosseria, Dego, Millesimo, si era già realizzata la 
		prima parte del disegno di Napoleone, cioè la quasi separazione dei due eserciti avversari. 
		Il generale Colli nella notte tra il 14 e 15 aprile aveva abbandonato le alture di Montezemolo, 
		lasciando solo una piccola retroguardia e concentrando tutte le sue truppe nei campi trincerati 
		di Ceva e della Pedaggera.
 
 
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		La Battaglia di Ceva e della Pedaggera si combatté il 16 aprile e fu un reale successo dei 
		piemontesi (reparti Brempt, De Portier, Colli, Ghilini, Vitale, Bellegarde, Pallavicino, Stettler, Andezeno) 
		che per tutta la giornata respinsero gli attacchi delle varie brigate francesi (Beyerand, Joubert, 
		Rusca, Fiorella) su tutta la linea di difesa costringendole a ritirarsi oltre il torrente Bovina. 
		Gli invasori passarono la notte sul sistema collinare che da Paroldo va verso Sale, pronti a 
		riprendere gli assalti il mattino successivo, rinforzati da altre truppe della divisione Sérurier, 
		che intanto era scesa dall’Alta Val Tanaro.
 
 
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		Inaspettatamente però, nonostante il buon esito degli scontri del giorno precedente, nella 
		notte tra il 16 ed il 17 aprile, il generale Colli ordinò l’evacuazione del campo 
		trincerato facendo ritirare le sue truppe verso San Michele e andò ad occupare celermente 
		le posizioni difensive della Bicocca. Le ragioni furono dovute all’inquietudine che si era 
		impossessata del comandante dell’esercito piemontese, circondato da uno stuolo di pavidi 
		subalterni, scettico ormai sull’aiuto che gli potevano fornire gli austriaci, timoroso che 
		altri reparti, delle divisioni dei generali Massena e La Harpe, attardati dal combattimento di 
		Dego, potessero quanto prima arrivare aggirandolo sulla sinistra.
 
 
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		Questa manovra consentì ai francesi di avanzare senza molti problemi ed attraversare il 
		torrente Corsaglia. Restava il Forte di Ceva che grazie al conte di Tornafort continuava a resistere. 
		A nulla erano valsi messaggi di intimazione alla resa inviatigli dal generale Fiorella e dal generale 
		Augerau tra il 17 ed il 18 aprile. Il Tornafort li aveva fieramente respinti impegnandosi però 
		a non sparare sulle truppe occupanti, poiché non avrebbe ritardato di molto l’avanzata 
		francese, ma avrebbe arrecato danni enormi alla città ed ai suoi abitanti.
 
 
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		Il primo a giungere in città fu il generale Rusca, che la mattina del 17 aprile si era 
		attestato sull’altipiano di Soraglia, dietro le mura del Campanone, al riparo dai colpi 
		di cannone che gli arrivavano dalla fortezza. Il generale Rusca, originario di Briga Marittima, 
		prima di arruolarsi nell’esercito francese era un medico ed era già stato altre 
		volte per i suoi affari a Ceva, dove poteva contare diversi conoscenti. Questo favorì 
		le trattative che condusse con la municipalità per il vettovagliamento delle sue truppe e 
		l’esborso di 8000 franchi. In tal modo fu evitato il saccheggio della città ed i 
		francesi osservarono la rigida disciplina imposta dal loro comandante. Anch’egli tentò di 
		costringere il Forte alla resa, ma inutilmente quindi proseguì per San Michele.
 
 
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		Napoleone Bonaparte arrivò a Ceva nella tarda mattinata del 20 aprile, mettendo per la 
		prima volta in atto un assetto di sfilamento trionfale del suo stato maggiore che avrebbe poi 
		sempre ripetuto in ogni città conquistata. Percorse tutta la via delle Volte sino al Duomo, 
		poi pranzò presso l’albergo di Domenico Francolino. Con il capo di stato maggiore generale 
		Berthier ed il commissario generale Saliceti convenne che era inutile e troppo dispendiosa un’azione 
		militare contro il Forte, stante che il grosso dell’esercito era già vittoriosamente passato 
		oltre e dopo la battaglia di san Michele era in procinto di attaccare Mondovì. Convocata la civica 
		amministrazione, ordinò all’attuario Sito che si provvedesse per la contribuzione di guerra 
		dovuta dalla città. Il Sito, rammentando i già corposi tributi a cui fu soggetta da parte 
		francese la comunità nei giorni precedenti, riuscì ad ottenere dal generale una 
		riduzione delle pretese.
 
 
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		Mentre era ospite dell’avvocato Moretti, affacciatosi da un balcone, Napoleone scorse il 
		castello dei Pallavicino, vi si recò ed il marchese Cosimo Damiano lo accolse e vi 
		passò probabilmente la notte, proseguendo in seguito per Lesegno dove aveva stabilito il quartier generale.
 
 
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		Dopo la ritirata dalla Pedaggera e le battaglie di San Michele e di Mondovì, l’esercito piemontese 
		era praticamente in disfatta ed ai francesi si era aperta la via del Piemonte. Il re fu costretto a chiedere 
		una tregua per scongiurare la devastazione delle principali città della parte meridionale della 
		regione e della stessa Torino. L’armistizio fu siglato a Cherasco la mattina del 28 aprile. 
		Di conseguenza il giorno dopo giunse il dispaccio di Napoleone al conte di Tornafort che recava l’ordine 
		di Vittorio Amedeo III di consegnare il Forte ai francesi nella persona del generale Miollis, c
		he fu pure destinato a comandare la città, sistemandosi in casa Pallavicino. La guarnigione ebbe 
		la facoltà di abbandonare il presidio a bandiere spiegate, 
		con l’onore delle armi, dirigendosi verso Bra, come era stato prescritto.
 
 
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		Il conte Vincenzo Bruno di Tornafort, aiutante di campo del Governatore suo padre, 
		fece trasportare nel Duomo la preziosa statua dell’Addolorata, dalla cappella del Forte, 
		per preservarla da eventuali oltraggi che avrebbe potuto subire dai francesi che si accingevano ad 
		insediarsi nella fortezza.
 
 
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		Il  20 Settembre 1796 venne istituita la Compagnia dell’Addolorata a 
		perenne venerazione del simulacro.
 
 
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		Nel 1796, con l’amministrazione da parte della Francia dei territori occupati, viene ad estinguersi 
		quella forma di suddivisione giurisdizionale del marchesato di Ceva che fin dal 1457 
		aveva portato alla costituzione di 12 Capitanati o Donzeni.
 
 
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		I due anni che seguirono furono di estrema desolazione per la città occupata. 
		Si susseguivano da parte dei francesi imposizioni e saccheggi, anche nelle c
		ampagne intorno e non si esitava a compiere ruberie ed atti sacrileghi anche in cappelle e chiese.
 
 
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		Con Regie Patenti del 13 Marzo 1798 venne decretata la soppressione del convento degli 
		Agostiniani e messe in vendita le cascine di sua proprietà.
 
 
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		1799, nel mese di maggio, anche prestando credito alle voci che circolavano circa il sopraggiungere di 
		una grande armata di austro-russi per cacciare i francesi dalle terre del Piemonte, si organizzò 
		un corpo di ardimentosi volontari provenienti dalle terre del cebano che era comandato dal capitano 
		Francolino di Castellino, dal chirurgo Cerrina di Murazzano e dal signor Galliano di Sale. Costoro 
		costrinsero alla resa il comandante francese Maris impossessandosi del Forte, un po’ con le 
		armi e un po’ con l’astuzia. Alcuni giorni dopo, di concerto con i rivoltosi, venne 
		inviata dal comando russo di Alessandria una guarnigione militare a presidio del Forte, della 
		quale facevano parte anche ex artiglieri dell’esercito piemontese. Furono intraprese opere 
		di manutenzione e di rafforzamento delle difese, anche con l’aiuto di molti cittadini di 
		Ceva per prepararsi ad una controffensiva francese. Questa non tardò ad arrivare, al c
		omando del generale Grouchi, che stabilì le sue artiglierie in cima al borgo della Torretta, 
		vicino alla cascina di sant’Andrea. Dopo un vicendevole scambio di cannoneggiamenti ed 
		intimazione di resa da parte dei francesi, sistematicamente respinte dagli occupanti la fortezza, 
		quelli, ritenuto vano ogni tentativo, si allontanarono dalla città. Altrettanto inutile 
		fu il minaccioso proclama fatto pervenire poco dopo dal generale Moreau nuovo comandante in 
		capo dell’armata francese in Italia.
 
 
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		A inizio luglio, una legione di prigionieri francesi al cui seguito vi erano anche donne e bambini 
		giunse a Ceva, proveniente da Ferrara e diretta a Savona per congiungersi con l’armata 
		repubblicana, munita di un ricco bagaglio che nella notte fu depositato nella chiesa di San Giovanni. 
		La notizia si sparse rapidamente, il giorno successivo i francesi ripartirono da Ceva, ma un’orda 
		di briganti lì assalì e depredò, trucidandone parecchi, nella valletta del Cevetta 
		poco fuori dell’abitato di Priero all’inizio della salita verso Montezemolo. Nello stesso 
		giorno buona parte del bottino venne messo in vendita dagli aggressori in una sorta di mercato che 
		passò alla storia come un fatto esecrabile, tristemente noto come La Fiera di Priero.
 
 
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		Negli ultimi mesi del 1799 più volte soldatesche francesi di passaggio tentarono di i
		mpadronirsi di Ceva cercando di forzarne le porte, ma corpi di volontari composti quasi 
		esclusivamente da cittadini li respinsero coraggiosamente, procurando loro numerose perdite, 
		anche con l’aiuto dell’artiglieria del Forte dove erano insediati 
		gli austriaci del comandante Schmelzem.